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Roma. 2003.
Per necessità emotiva di musicare il cazzeggio, nascono i Beer Brodaz.
Interpretando erroneamente il punk come “dottrina del pressapochismo”,
si suona senza meta e senza cognizione di causa, per fare rime sconce e riderci.
Scrollarsi di dosso le cose serie a suon di rime baciate.
Live senza regole, senza senso, anche senza pubblico non importa.
Tre album autoprodotti, autodistribuiti, autotrofi e autarchici.
Eccessi di prosa, di vizi e di rumore.
Lo stile libero e confuso insegue la scia dello ska-punk di quegli anni.
Finisce la scuola.
La diaspora universitaria rallenta ma non uccide.
Un album di 19 tracce, no batteria, sì drum machine.
Quanto ci manca il palco.
Batterista nuovo di zecca.
Riprendono i live.
Il pubblico esce dallo stand-by, decuplicato.
Seconda trilogia di album.
Si assottiglia la distanza tra la prima fila e il palco.
Roma, Milano, Bologna.
Sottopalco è un posto per temerari.
“Ci scusiamo con quelli che non sono riusciti ad entrare”.