Scomodo intervista i Beer Brodaz

Scomodo è un mensile d’informazione indipendente, gratuito e completamente autofinanziato, nato a Roma nel 2016. Sul numero di Dicembre 2018 è uscito un articolo con un’intervista ai Beer Brodaz.
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Nel seguito abbiamo riportato l’intervista, a cura di Ismaele Calaciura:

I BEER BRODAZ: BIRRA E AUTOPRODUZIONE

I Beer Brodaz sono un caso curioso di musica libera e autoprodotta, fondata da quattro ragazzi di Laurentina nel 2003 (Il cantante Corrado, il chitarrista Arman, il bassista Massimo e il batterista Stefano, che tra l’altro si sono esibiti alla nostra Notte Scomoda il 7 dicembre).
Raccontano la Roma delle birre con sonorità abbastanza varie ma che si mantengono sullo Ska punk. Abbiamo posto alcune domande al chitarrista Arman Derviskadic.

Vi collocate da qualche parte nella scena romana, dove? A che gruppi vi siete ispirati?
Quando abbiamo iniziato non avevamo grandi punti di riferimento, la nostra priorità era raccontare quello che ci succedeva. Però in quegli anni il punk andava di più di quanto andasse ora.

Alla fine suonate uno ska punk abbastanza classico, il filone è quello degli Ska-P.
Esatto, quando andavamo al liceo gli Ska-P erano il gruppo più famoso in questo ambito. Però non ci siamo mai ispirati a loro, non ci siamo mai legati troppo a un genere rispetto a un altro. Abbiamo avuto chiaro sin da subito che quello che volevamo era raccontare cosa ci capitava tutti i giorni, storie nelle quali ci si immedesima e appartengono a tutti. Volevamo raccontare le cose che accadevano a noi e al nostro gruppo di amici. Abbiamo iniziato col punk perché quando abbiamo fondato i Beer Brodaz io non sapevo suonare nessuno strumento, avevamo iniziato di corsa. Il punk da questo punto di vista ti viene incontro rispetto a generi più tecnici, le canzoni riescono orecchiabili anche se tecnicamente non sei fortissimo. Devo dire che veniamo tutti da background molto diversi.
Corrado a un certo punto era diventato molto fan dei Red Hot Chilli Peppers, ne parlava di continuo. Soprattutto gli piaceva suonare le loro canzoni. Massimo, che prima era il cantante, ha iniziato a suonare il basso proprio per questo, aveva imparato in un lasso di tempo brevissimo, non ho mai capito come, a rifare i pezzi di Flea dei Red Hot. Stefano invece è un amante dei generi moderni che prendono ispirazione dal funk, jazz, soul, rock e fusion, un batterista di tocco. Tra l’altro Stefano e Massimo sono musicisti professionisti a tutti gli effetti. Per noi questo è molto importante, visto che ci capita spesso di spaziare tra i generi e avere un bassista e un batterista molto tecnici è di grande aiuto. Di solito per scrivere una canzone per prima cosa partiamo dall’argomento e solo dopo lavoriamo sull’aspetto musicale. Se una tematica ci richiama una determinata atmosfera costruiamo l’aspetto musicale a partire da quella.

Per Rutta Libre, ad esempio, come avete lavorato?
Siamo partiti dal titolo. Ci scherzavamo spesso, perché dicevo sempre che se avessi mai aperto un pub lo avrei chiamato “Rutta Libre“. Quando uscì la prima ordinanza contro l’alcool ci colpì molto, perché noi ai tempi stavamo sempre a Trastevere, non ci andò per niente bene. Quindi abbiamo deciso di fare una canzone che inizia in modo allegro, che richiama la notte romana e ricorda uno stornello, per sfociare poi in un punk un po’ più duro che esprimeva la nostra rabbia, quasi politica.

In verità le vostre canzoni sono molto politiche.
Sì lo sono moltissimo, ma è sempre tra le righe, la politica nei nostri pezzi è nascosta da un velo di ironia.

Per i testi invece? In generale, come scrivete una canzone?
Principalmente li scrive Corrado, poi ci confrontiamo insieme. Nell’ultimo periodo le attività professionali ci tolgono molto tempo e energie, quindi per prima cosa decidiamo il tema o il titolo, come appunto abbiamo fatto per Rutta Libre o Stasera, poi Corrado scrive il testo e mi manda un vocale whatsapp dove canta tutta la canzone, dopodiché ci vediamo in sala per discuterne, svilupparla e registrare.

Invece, un gruppo che vi assomiglia molto, anche se non dal punto di vista prettamente musicale, sono gli Inna Cantina.
Lo penso anch’io, mi piacciono molto e ce lo dicono spessissimo. Anche loro suonavano spesso alla Strada e siamo due gruppi molto diversi da quello che si trova in media nella scena romana.
Da una parte c’e’ una deriva che ora chiamano “indie”, ma che poco ha a che vedere con l’indie rock, è un cantautorato di basso livello che segue delle logiche che mi sono completamente oscure. Non capisco come facciano a riempire gli stadi. Insieme al filone della trap, non mi convincono né nei contenuti né negli arrangiamenti. Oltre a questi due filoni la scena romana è molto disuniforme, escludendo un nocciolo Hip Hop che resiste.
Purtroppo non ho più il tempo di esplorare e studiare le cose nuove che escono.

Pensi che la vostra musica possa essere considerata uno specchio generazionale, che racconta cosa stia succedendo a Roma oggi?
Come è normale certe canzoni sono riuscite meglio di altre, e a mio avviso ce ne sono alcune che possono essere veramente considerate tali, perché raccontano quello che osservavamo della nostra vita di ogni giorno, con questo specifico fine. E poi i costumi dei giovani romani non sono cambiati. Quello che era vero con “Nel rispetto della quiete” nel 2015 è vero ancora oggi.
È attualissimo “Non dire addio“, un pezzo che parla in modo leggero e parodico dell’emigrazione, una vera tragedia che vivono moltissimi miei coetanei e che io stesso ho vissuto, avendo abitato due anni in Olanda per lavoro. È questo il nostro modo di essere “militanti”, per quanto ci definiamo un gruppo apolitico. L’emigrazione oltre che essere un problema per chi la vive è una questione grave anche per quanto riguarda il sistema paese, che perde decine di migliaia lavoratori che vanno a produrre altrove. Tutto questo lo diciamo nella canzone, ma velatamente, in mezzo ci mettiamo tutti i luoghi comuni possibili, è un pezzo anche molto comico. È una canzone molto genuina, chi ha vissuto esperienze simili come me ci si ritrova molto. C’è molta verità in ogni verso, per esempio quando parliamo di finta mozzarella nella pizza, ti sfido ad andare a chiedere una margherita a Dublino…

Saranno mai recuperabili i vostri primi dischi?
In verità noi i dischi ce li siamo conservati. L’unica traccia che non abbiamo sotto mano è l’intro parlata del primo disco. Lo avevamo registrato in presa diretta “al Teschio”, una sala di registrazione a Roma 70, una stanza con un solo microfono appeso al soffitto.
Comunque “Ho visto quel pesce” si può trovare su internet, se si ha la pazienza di fare una ricerca approfondita. Oggi che abbiamo più mezzi qualche volta pensiamo a registrare di nuovo le canzoni dei vecchi dischi che riteniamo più belle, e produrre un bel vinile con i nostri evergreen dei primordi.

Qual è la vostra situazione in fatto di etichette?
Penso che la nostra esperienza da questo punto di vista sia molto interessante, anche per quanto riguarda il progetto di Scomodo, siete abbastanza simili a noi. Il significato del termine “autoproduzione” oggi non è molto chiaro. Almeno, ci sono più gradi di autoproduzione in base a quante persone e quanti soldi hai dietro. Noi siamo al gradino più basso dell’autoproduzione, non abbiano nessuna struttura di logistica, booking, distribuzione, ufficio stampa, management, marketing, ecc. Siamo da soli. I cd li stampiamo di tasca nostra, non avendo nessun servizio di booking, aspettiamo che i locali e i festival ci chiamino a suonare e così via. Ci gestiamo da soli, fieri della nostra autogestione, con i suoi pro e i suoi contro.

Forse siete un unicum in Italia, nessuno tranne voi riesce a affermarsi e a fare live affollati senza nessuna minima struttura dietro.
Tutto quello che riguarda il nome Beer Brodaz è il frutto del nostro solo lavoro e delle nostre personali decisioni. Non abbiamo nessun tipo di limite, nessun argine. Restiamo veri, genuini e effettivamente indipendenti. Ovviamente richiede un notevole impegno in più.
Parte delle grafiche ce le fa Dario Pallante, un nostro talentuoso amico che lavora alla Strada.
Negli ultimi due anni abbiamo iniziato a collaborare fianco a fianco con Valerio Cascone, il nostro fonico, e con Gianluca Massarenti, il regista dei nostri ultimi video.
Da soli siamo riusciti a creare una realtà nazionale. A Milano ci ascoltano poco meno che a Roma, vedo dalle statistiche di Spotify.

Quanto è cambiata la vostra musica e il vostro approccio da quando avete iniziato a suonare?
L’approccio è lo stesso, noi quattro che ci prendiamo a parolacce perché uno non si è studiato la parte, un altro arriva in ritardo… Si ricrea un’atmosfera molto liceale. Probabilmente è cambiato, crescendo, il contenuto. Dal secondo e terzo liceo, quando abbiamo iniziato, sono cambiati molto gli interessi e ovviamente le abitudini, cerchiamo di essere meno scontati, ho imparato a suonare il sassofono… abbiamo ampliato gli orizzonti, ecco.

La notte delle streghe” e “Vescica loca”, comunque i pezzi più recenti faranno parte di un disco? Progetti per il futuro?
Per il momento no, sono canzoni isolate che stiamo facendo con il pochissimo tempo che abbiamo a disposizione. Per un nuovo disco preferiremmo farlo del tutto ex novo, senza canzoni che il pubblico ha già ascoltato, ma tutti inediti. Vediamo se questo 2019 regalerà ai nostri amici un nuovo album.